calafatidi Armando Schiaffino

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Nel luglio 2021 l’editore Innocenti di Grosseto ha pubblicato un libro scritto da Francesco Fanciulli dal titolo Il SANT’ANTONIO - Ricerche, documenti, testi­monianze su un naufragio e altre storie di mare e del Giglio di altri tempi. Il lavoro è frutto di una minuziosa e lunga ricerca sul naufragio di un piccolo motoveliero da carico, avvenuto nel 1953 sulle coste settentrionali sarde a causa di una violentissima burrasca.

Oltre a un’interessante appendice documentaria, il volume è arricchito da un utile glossario che, dato l’argomento prettamente marinaresco, consente una più approfon­dita ed accurata interpretazione del testo.

Provocando un sincero sentimento di gratificazione nello scrivente, l’autore ha voluto non solo che valutassi il suo lavoro prima della pubblicazione ma ne scrivessi anche una prefazione. Non avrei mai immaginato che una tale proposta di collaborazione su un argomento di interesse così circoscritto, avrebbe invece provoca­to un singolare problema di lessicografia, di interesse e valenza linguistica ben più vasta. Infatti, nel libro, in un paio di didascalie di foto d’epoca, veniva menzionato il termine “marmotta” nel significato di cassetta di legno dove i calafati tenevano gli attrezzi ma che utilizzavano anche come sgabello durante il lavoro sul fasciame dei bastimenti. Tale termine lessicale, usato in questa par­ticolare accezione, si sarebbe dovuto inserire, secondo me, nel ricco glossario del volume. L’autore, anche per esperienza derivante dalla sua pregressa attività lavora­tiva di ingegnere del RINA (Registro Navale Italiano) percepiva invece l’uso di questa parola come un vo­cabolo facente parte del normale patrimonio lessicale della lingua italiana: scriveva infatti a pagina 327 del volume: Il calafato teneva i suoi attrezzi in una cassetta di legno chiamata marmotta. Questa misurava circa 45 cm di altezza, 25 cm di larghezza e 20 di profondità. Sul­la faccia di superficie maggiore era ricavata un’apertura rettangolare o a mezzaluna dalla quale si estraevano (o riponevano) attrezzi del mestiere, tra i quali il grembiule in pelle, usato per proteggere i pantaloni quando si filava e si catramava la stoppa per ridurla al giusto diametro.

La marmotta serviva anche come sgabello di varie altez­ze a seconda della posizione in cui si metteva: in piedi, di costa, di piatto. Anche oggi, nella moderna costruzio­ne navale in cui l’utilizzo del legno è stato soppiantato dall’impiego dell’acciaio saldato, i saldatori ripongono gli elettrodi, la maschera e i guanti in una cassetta di dimensioni simili anch’essa chiamata marmotta.

È vero che nella lingua italiana ci sono parole con carattere “polisemico”, ossia che hanno vari significa­ti; esemplificativa, per rimanere nel mondo animale, la parola “pappagallo” che può avere, oltre al signi­ficato principale di uccello esotico, quello di un tipo particolare di chiave inglese, di recipiente usato dai malati per orinare rimanendo a letto, di un tipo di tu­lipano e anche di una specie di pesce molto colorato; in forma figurata si può riferire anche a un giovinastro con atteggiamento impertinente ecc. Anche il termine “marmotta”, oltre al significato principale di particola­re specie di mammifero delle praterie alpine, può in­dicare un dispositivo di segnalazione ferroviario, una pianta spontanea dei boschi subalpini da cui si estrae un olio commestibile e antireumatico; in senso figurato può indicare un soggetto goffo e lento nei movimenti e, per il fatto che questo animale passa gran parte dell’in­verno in letargo, viene usato nella locuzione dormire come una marmotta.

La cosa che più colpisce, in tutto questo elenco di possibili significati, l’assoluta assenza di quello di “cas­setta per attrezzi di calafati” in ogni vocabolario del­la lingua italiana. Riesce difficile spiegarsi come tale termine, in questa particolare accezione, possa essere sfuggito a tutti gli studiosi di lessicografia, soprattut­to in considerazione che risulta tuttora presente nel linguaggio tecnico, oltre a essere stato usato per oltre cento anni in una vasta area geografica della costa la­ziale, toscana e ligure (nel meridione la “marmotta” era chiamata invece “scaravìa”).

I maestri d’ascia e i calafati dell’isola del Giglio, di Porto Santo Stefano all’Argentario, dell’isola d’Elba, di Livorno, Viareggio, La Spezia e su via fino a Rapallo ecc. hanno sempre indicato la loro particolare cassetta con il termine “marmotta”. Dal punto di vista degli storici locali della zona sud toscana, risulta ancora più inspiegabile la man­canza di tale termine lessicale negli studi del glottologo Clemente Merlo, nella tesi sul dialetto dell’isola del Giglio di Ilario Quintarelli e nel monumentale Vocabolario di Isola del Giglio e Monte Argentario di don Pietro Fanciul­li. Si riescono a trovare invece numerosi riferimenti sul tema navigando su Internet. I lavori sull’affascinante arte del calafataggio citati nella sitografia del presente artico­lo, consentono, a chi interessa, una lettura in rete ancora più esaustiva sulle tecniche, le attrezzature dei calafati e anche delle caratteristiche costruttive della marmotta; come già spiegato da Francesco Fanciulli nel suo libro sul naufragio del Sant’Antonio, questa poteva servire anche come sgabello di varie altezze, secondo la posizione in cui si metteva, in orizzontale, in verticale o di lato.

È grazie a una felice intuizione dell’amico ingegner Domenico Solari, anche lui appassionato di storia loca­le, che si è ragionevolmente potuto ipotizzare il motivo per il quale la cassetta dei calafati sia stata designata ab immemorabili con il termine traslato di marmotta: mo­tivazione quasi sicuramente da ricercarsi nel suo versatile utilizzo come sgabello in tre diverse possibili posizioni a seconda della necessità e (quando utilizzata in verticale) alla evidente similitudine con la caratteristica, propria di questi animali a quattro zampe, di consumare il cibo se­duti sulle zampe posteriori e di assumere, in situazioni di allerta, una peculiare posizione di vedetta. Dando per verosimile la suddetta ipotesi, viene spontaneo chieder­si come tale denominazione possa essere stata suggerita dall’osservazione di un animale tipico della montagna e quindi assolutamente estraneo alla quotidianità e alla re­altà delle zone di mare; anche tale tipo di perplessità può trovare la sua spiegazione in un altro aspetto dell’attività professionale dei maestri d’ascia e dei calafati: infatti, so­prattutto in Liguria, quando occorreva rifornirsi del le­gname necessario nei cantieri, si preferiva sceglierlo di persona in lunghe trasferte sugli Appennini e sulle Alpi liguri, ricche di boschi fittissimi di varie specie legnose. Là i maestri d’ascia incontravano i boscaioli locali che non solo tagliavano e diradavano i tronchi, ma spesso col- laboravano al trasporto utilizzando dei muli oppure per mezzo di corsi d’acqua che giungevano al fondovalle.La permanenza dei maestri d’ascia in montagna si protraeva a lungo, il tempo necessario non solo per una ricerca accurata dei tronchi e rami che avessero già par­ticolari curvature ma anche per le successive operazioni di stagionatura del legname. La migliore stagionatura si otteneva infatti in due fasi: con la prima si immergevano i tronchi in un torrente montano per almeno sei mesi affinché rilasciassero il tannino; nella seconda, il legna­me veniva impilato e distanziato in modo da favorire la circolazione dell’aria. Tali operazioni venivano effettua­te in varie zone delle Alpi liguri, oggi protette da parchi naturali dove abbondano le marmotte. I maestri d’ascia del passato ebbero quindi modo di osservare a lungo le caratteristiche di questi animali.

Nacque probabilmente così questa “variazione semanti­ca” di una parola che avrebbe dovuto trovare il suo posto se non nella lessicografia italiana almeno nell’elenco dei termini tecnici nelle sedi nazionali degli istituti italiani di saldatura e che, per una stranezza inspiegabile, non è stata invece mai inserita, rimanendo nell’ambito gergale nono­stante un uso diffuso e consacrato nel tempo. Dinamiche della lingua di cui è molto impegnativo trovare possibili spiegazioni e che destano invece molte perplessità: perples­sità che si trasformano in stupore divertito quando poi si scopre che, nel mondo dell’oreficeria, le custodie “a forma di cassetta” degli orologi vengono chiamate “marmotte”.

ARTICOLO ORIGINALE

 

Sitografia:

web.tiscali.it/scuolalegrazie/manutenzioneimbarcazioni.htm

https://nautipedia.it/index.php/Calafataggio

http://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=480:maestro-da- xia&catid=52:artex&Itemid=153

http://www.studiofaggioni.com/museo-baracca-faggioni.php?pag=3

https://www.flickr.com/photos/nikiteenrico/43946939944

http://www.quaderni.net/WebMuseo/B06marmotta.htm 

http://ordigno-model.blogspot.com/2008/09/larte-del-calafataggio.html?m=1

http://www.ricciardi.eu/barca/Calafataggio.pdf

https://www.delphin-schooner.com/it/restauro/calafataggio-preparazione-scafo.html

 

   

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